I contadini
La loro giornata iniziava prestissimo perché dovevano portare il latte in latteria entro le sette, con le zare, appese al manubrio della bicicletta. Chi ne produceva parecchio metteva la zara più grande appoggiata ad una tavoletta sul palo della bici e la teneva in equilibrio con le braccia. Qualche famiglia usava un carrettino le cui ruote spesso, al posto dei copertoni e caramedarie avevano molti giri di ligassi (che servivano per legare le faje). Era consuetudine di questi contadini ordinare delle piccole “pezze” di formaggio in latteria: il casaro numerava la pezza con lo stesso numero del libretto dove venivano segnati i litri di latte consegnati giornalmente, la allevava, la stagionava e una volta pronta, su richiesta del contadino, la consegnava e scalava il costo dal conto personale.
Appena terminato di governare le mucche gli uomini rientravano in casa a fare colazione: pan vècio biscotà nel forno e tagliato con el tajapàn, latte appena munto e fatto bollire.
Nei campi c’erano molti lavori da eseguire: tagliare l’erba, raccogliere il fieno, arare, seminare.
Molti anni fa, un lavoro molto pesante che alcuni contadini facevano era di riportare la terra dal fondo a in cima al campo arato per tenerlo il più livellato possibile. Nelle giornate belle di fine dicembre, raccoglievano le foglie cadute: usando una caponara o un grande telo le caricavano nel casselòn (carro con le sponde) per portarle a casa e fare el lèto alle mucche risparmiando la preziosa paglia.
Quando era possibile, era usanza, appena finito di pranzare, andare a fare un pisolino, mentre la domenica mattina era dedicata alla pulizia del cortile.
Fino a molti anni fa, anche nella nostra zona, veniva seminato il cànevo (canapa) che aveva moltissimi usi. Dopo averle tagliate, le alte piante venivano legate a fasci ed immerse per varie settimane in una fossa colma di acqua stagnante dove imputridivano e la corteccia si staccava dal gambo. Poi, con un rudimentale attrezzo chiamato gràmola, le fibre venivano tagliate e sminuzzate e dopo ulteriori procedimenti veniva confezionato del tessuto che veniva usato anche per fare le lenzuola molto resistenti e ruvide oppure corde o sacchi. Le sementi venivano comunemente date da mangiare, mischiate ai mangimi, anche agli uccelli da richiamo perché diventassero più forti e bravi. Con gli anni la canapa, nelle nostre zone non è più stata coltivata per lo scarso uso.
Se i campi erano a mezzadria o in affitto, il lavoro diventava ancora più difficoltoso: però i contadini potevano consolarsi perché il cibo a loro non mancava mai, come purtroppo invece succedeva normalmente alla gente della Conca.
Nella nostra zona non c’è mai stata una grande tradizione di fare el vin. I contadini producevano la quantità che bastava al proprio fabbisogno ed il poco rimanente lo vendevano. Era un vino di bassa qualità che spesso cominciava molto presto, in primavera, a puntare. Qualcuno produceva il vin pìcolo: era vino allungato con acqua e quindi più leggero.
In molte case coloniche c’era il forno a legna per cuocere il pane che veniva fatto ogni tre o quattro settimane. Affinché il forno funzionasse meglio, era utile che venisse usato il più possibile e perciò veniva spesso prestato alle famiglie della Conca le quali si portavano le fascine di legna da casa e poi lasciavano ai proprietari alcune pagnotte.
D’inverno le donne di casa, per alimentare il fuoco della stufa, a mani nude e ghiacciate, dovevano raccogliere, lungo le siepi, i spin del Signore e lungo i filari di viti i tralci tagliati, che poi gli uomini provvedevano a legare con una stròpa. Gli uomini erano addetti anche a fare la legna, bruscare, intestare i morari, ecc. Le altre mansioni delle donne erano: seguire i maiali, gli animali da cortile, i conigli, l’orto (dopo che gli uomini lo avevano ingrassato e vangato).
Quando passava el munaro consegnavano un sacco di semente da macinare e ritiravano quello della volta precedente. Ne serviva sempre, perché il pane veniva fatto in casa, la farina gialla era indispensabile per la polenta e per fare il pastà (con pan vècio bagnà) dei pulcini e per le arnéte (con radìcio o insalata), non doveva mancare la semola per i maiali e il sórgo roto quando c’erano i polli da allevare.
In quasi tutte le case coloniche e in varie famiglie della Conca e del circondario, anche se non erano contadini e non avevano quindi gli spazi necessari, in primavera si allevavano i cavaliéri (bachi da seta) perché questa attività, più di ogni altra, faceva guadagnare parecchi soldi. Era un periodo molto impegnativo perché oltre ai lavori normali ne veniva aggiunto uno che impiegava tutti i membri della famiglia e occupava gran parte dell’abitazione. La soménsa (le uova fatte dalle farfalle) veniva acquistata alla Filanda Rossi di via De Muri o dalla famiglia Binotto di via S. Gaetano: un quarto, o mezza, o una onza.
La soménsa, veniva “incubata” in un modo singolare. Per mantenere la temperatura costante, veniva posta su un telo sotto al covèrtolo (coperte) e al dapie (cuscino): una persona della famiglia, a turno, rimaneva stesa sul letto per circa otto giorni e con il proprio calore faceva schiudere le uova.
In Conca le famiglie che non possedevano i campi acquistavano dai contadini le foglie dei morari (gelsi), ancora sulle piante, se le raccoglievano e le pagavano dopo la vendita delle galéte (bozzoli). Le foglie venivano raccolte più volte al dì per circa quaranta giorni: quando i cavalieri erano grandi mangiavano in continuazione come furia. Si andava a pelare i rami a mani nude, non esistevano i guanti, muniti di una scala e di un sacco fissato ad una grossa cintura con un pezzo di legno.
Quando pioveva, dovevano raccogliere lo stesso le foglie ma non potevano darle ai cavaliéri bagnate e quindi tagliavano i rami dagli alberi e li stendevano sotto al portico ad asciugare.
Si doveva fare molta attenzione che gli insetti non venissero assaliti dalle formiche.
Non tutti avevano il toro da monta: famoso era quello della famiglia De Toni (Marola) in via G. Marconi. La loro fattoria, negli anni ’60, andò a fuoco.
Negli anni ’60, per un certo periodo, gli scarti della lavorazione delle scarpe (in Conca c’erano molti laboratori) venivano abitualmente disseminati in campagna, lungo i filari di viti. Si pensava che concimassero e che si degradassero velocemente. Purtroppo non era vero, dopo le lavorazioni subite il cuoio e la gomma delle suole non si decomponevano praticamente mai e ogni qualvolta veniva arato il terreno, i vari ritagli riaffioravano.
Negli stessi anni in tutta Italia ci fu il boom degli allevamenti del pollame. Anche nella zona di Thiene ne furono avviati parecchi. Non esisteva ancora la cultura dell’inquinamento e dello smaltimento dei rifiuti e tantomeno quello per gli schiti (sterco dei polli). Essi venivano prima ammucchiati vicino ai pollai e poi disseminati sui campi, su richiesta degli stessi contadini che pensavano così di risparmiare il loro letame, con il risultato, ma ci si accorse molti anni dopo, che erano più dannosi che utili perché erano composti di solo azoto. Il loro impiego fu abbandonato anche perché in tutta la zona dove venivano impiegati regnava per molto tempo un fetore insopportabile ed un proliferare incontrollato di mosche ed altri insetti.
In Conca fino a qualche anno fa c’erano una ventina di proprietà agricole quasi tutte non di grandi dimensioni. Con l’andare degli anni e con l’espansione della città di Thiene verso sud, le case coloniche sono scomparse quasi del tutto. Molte sono state abbattute per far posto a nuove costruzioni, altre ristrutturate, altre ancora abbandonate.
di Gianni D. F. 457
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