Anni ’60 – In via delle Robinie, nell’aia della famiglia Tedesco, contadini al lavoro attorno alla trebbia (Luigia Tedesco)

Fino all’avvento delle mietitrebbie, nelle case coloniche più grandi della Conca venivano noleggiate le trebbie il cui costo veniva pagato con il frumento ed in seguito a tariffa oraria. Generalmente i proprietari delle trebbie usate in zona erano di Rozzampia. Si ricordano i Carollo, Laghetto, Costalunga.
Fino a qualche anno prima della guerra il frumento veniva seʃolà (mietuto) a mano. In seguito si è iniziato ad usare una falciatrice, trainata dalle bestie o da un trattore, alla quale veniva aggiunto una specie di rastrello per trattenere le spighe appena tagliate. Quando se ne erano ammassate un bel po’, il rastrello veniva alzato e il frumento ammucchiato per terra, veniva subito legato a fàje (covoni) dagli addetti ed ammucchiate nel campo.
Nella nostra zona, la prima tajaliga (mietitrice) che faceva risparmiare molto tempo e fatica arrivò nei primi anni ’60.
Dieci fàje in piedi e tre appoggiate sopra per ripararle dalla pioggia formavano le cape. Le croʃéte erano invece dodici fàje appoggiate a terra a forma di croce più una sopra. Successivamente venivano portate a casa ed accatastate sotto al portico.
Dopo la mietitura tutte le persone della Conca potevano entrare nei campi per spigolare le poche spighe rimaste.
La trebbiatura era molto importante per l’economia dei contadini, impegnativa e faticosa. Il giorno precedente, in prossimità della catasta di frumento, veniva predisposta la grande trebbia e messa perfettamente in bolla affinché potesse lavorare senza intoppi. Davanti veniva posizionato un trattore Landini a testa calda monocilindrico a due tempi che aveva una puleggia su un fianco collegata direttamente al motore, alla quale veniva infilata una lunga cinghia di cuoio che trasmetteva il movimento a tutta la trebbia. Dalla parte opposta della macchina, dove usciva la paglia, veniva fissata l’imballatrice per pressare le balle e poterle accatastare e formare la marèla, altrimenti la paglia sfusa veniva ammassata formando un alto cono attorno ad un palo: el pajaro. 
Il mattino seguente, all’alba, una moltitudine di persone (le famiglie della Conca si aiutavano a vicenda) si accalcava attorno alla trebbia che veniva messa in moto mettendo in tensione la cinghia, con il suo caratteristico ed assordante gron-gron che avrebbe accompagnato tutto il giorno il duro lavoro. Per farsi sentire l’un l’altro tutti gridavano.
Due o più uomini facevano passamano con le fàje per poterle issare sopra alla trebbia che era molto alta. Altre due persone erano addette a tagliare lo spago delle fàje e infilarle nella bocca della trebbia (lavoro molto pericoloso perché più di qualcuno è scivolato all’interno rimettendoci le gambe). Tre addetti dovevano riempire i sacchi di sementi usando la miʃura di circa sessantacinque chilogrammi e solitamente erano uomini molto forti perché dovevano portare i pesanti sacchi a spalla, su per le ripide e strette scale di legno fino al granaio, dove il frumento veniva steso ad essiccare. Due persone, che solitamente erano i proprietari della trebbia, dovevano controllare che tutto funzionasse bene, aggiungere acqua e petrolio al trattore, oliare i molteplici meccanismi.
Un uomo era addetto alle pàjole (scarti) che uscivano da un lato della trebbia: doveva ammucchiarle con un rastrello e portarle via con una caponara. Tutta l’area era invasa da una fastidiosissima polvere. Due persone erano all’imballatrice: dovevano infilare due fili di ferro nelle apposite guide e poi, una volta completata la balla, legare strette le due estremità.
Altri tre uomini erano addetti a fare la marèla de pàja: portare le molte balle di paglia sul luogo predisposto e posizionarle perfettamente, incrociandole, per dare solidità e sicurezza perché era alta parecchi metri.
Un lavoro che solitamente svolgevano i ragazzi era quello della preparazione dei fili di ferro per l’imballatrice: usando un piccolo banchetto che aveva una manovella collegata ad un gancio, facevano ad una estremità un’asola attorcigliando i fili che poi li tagliavano ad una lunghezza prestabilita.
Era compito delle donne di casa portare in continuazione da bere a tutti gli uomini impegnati sotto il sole nel faticoso lavoro: acqua fresca e limone, vino.
A mezzogiorno la trebbia veniva fermata e quindi, dopo essersi rinfrescati con l’acqua del làbio, tutti a mangiare: gli uomini a tavola, i ragazzi su un tavolino a parte, le donne con il piatto in mano o sedute sui gradini delle scale. Di primo c’era minestra maridà (brodo, riso, tagliatelle fatte in casa e figadini) o pastasciutta e di secondo manzo e gallina o cappone con il crén e i sottoaceti.
Era una giornata molto pesante, ma importante per tutti, perché la vendita del frumento era una delle poche voci dalle quali si ricavava qualcosa. Una parte del frumento non veniva venduto ma consegnato in piccole dosi al munaro che passava periodicamente e poi riportava la farina bianca per fare il pane ed i dolci.
Alcune famiglie della Conca che avevano piccoli appezzamenti di terreno e di conseguenza coltivavano poco frumento, lo portavano alla trebbia che spesso veniva posizionata in mezzo a via S. Giovanni Bosco davanti all’abitazione della famiglia Dal Zotto (Dadà), deviando lo scarso traffico di allora per via S. Filippo Neri.