Le famiglie

Qualche anno fa (1970 – 2000) i genitori provavano imbarazzo nel raccontare ai figli il proprio modo di vivere, di giocare, di trascorrere il tempo libero. Nel bel mezzo di un boom economico che aveva toccato, più o meno, quasi tutti, portando benessere generale e, a volte, anche dispendio eccessivo, la povertà, i disagi sembravano motivo di vergogna, un qualcosa da tenere tacitamente nascosto.
Forse lo facevano per dimenticare essi stessi gli stenti, le scomodità con cui avevano dovuto fare i conti durante la loro infanzia e giovinezza.
Oggi, al contrario, sembra che la gente ami riportare alla luce le tradizioni di “un tempo che fu” organizzando manifestazioni che rievocano il passato e che raccolgono grande partecipazione fra grandi e piccini.
Genitori e nonni sono orgogliosi di mostrare a figli e nipoti oggetti, giocattoli, indumenti che usavano da piccoli. Figli e nipoti ascoltano, osservano incuriositi e meravigliati ciò che per loro è una piacevole novità, diversa dalle solite cose di cui sono circondati e che fanno parte di una noiosa quotidianità. Tutto questo porta ad una riflessione: ogni epoca, ogni modo di vivere ha i suoi pregi ed i suoi difetti, niente può essere costruito sul niente, il futuro è il seguito di un passato e di un presente.
La storia è una catena alla quale non può mancare nessun anello altrimenti si spezza.
Fino agli anni ’50 la povertà in Conca era molto diffusa: qualche famiglia non aveva nemmeno una preʃa di sale per la pastasciutta ed andava a chiederla a qualche vicino più fortunato. Si pativa la fame e c’era tanta miseria. Molti, per scaldarsi, andavano nella stalla di Giacomo Balasso in via Chilesotti, una famiglia molto disponibile e gentile. Nei pomeriggi invernali, si ritrovavano spesso molte ragazze: nel cantòn dee dòne le signore insegnavano alle ragazze a lavorare a maglia e a fare altri piccoli lavori di cucito. Alla sera invece si ritrovavano anche i giovanotti che cercavano di appartarsi con le ragazze nella parte in fondo alla lunga stalla, che era condivisa anche con la famiglia Conzato (Maran), dove c’erano i fenari, ma erano molto controllati dagli adulti ed era un posto proibito ai bambini.
Alla fine degli anni ’30, vari Concati privi di lavoro, furono impiegati in una operazione denominata Il Turno: dovevano cavare l’erba (togliere l’erba) lungo i marciapiedi della città che erano in saliʃo (sassi). Potevano così essere ricompensati ed avere un po’ di reddito per le loro povere famiglie. Partivano da casa con un sacco da mettersi sotto alle ginocchia ed un ferro e ripulivano le vie del centro.
Molte persone della Conca offrivano il loro lavoro di una giornata in campagna (zappare il sórgo, falciare l’erba, ecc.) in cambio del pranzo e di qualcosa da portare a casa. Spesso delle povere mamme si recavano dalla famiglia Saccardo in via dei Quartieri pregandoli di dar loro un po’ di latte per il loro bambino: la mucca Bisa veniva munta molte volte al giorno ed anche di notte. Anche la famiglia Balasso, abitante in fondo a via Cul del Saco, era molto disponibile ed aiutava in vari modi molte persone bisognose.
Mosele, di via dei Quartieri, prima della 2^ Guerra Mondiale, faceva il taxista: con una carrozza trainata da un cavallo attendeva davanti alla stazione ferroviaria i clienti (quelli che avevano la possibilità economica) per condurli a destinazione.
I ragazzi, per procurarsi la frutta, avevano escogitato un sistema molto ingegnoso: per non farsi vedere dal proprietario, con un lungo bastone munito di una stretta forcella, da dietro le siepi, staccavano i frutti e l’uva e la mangiavano o la portavano a casa.
Altri, per racimolare qualche soldo, raccattavano di tutto: ferro vecchio, stracci, ossa, ecc. Spesso si recavano lungo gli argini della Rozzola, in via Chilesotti, appena fuori dalle mura dell’Istituto Nordera, recuperavano le ossa degli animali che venivano macellati all’interno e venivano gettate nella roggia.
Quando nevicava e qualche ragazzo riusciva a procurarsi un po’ di marmellata e dello zucchero, andavano nella cantina della famiglia Balasso in via Chilesotti a spinare del vino crinto e, aggiungendo la neve, si facevano la granatina all’amarena.
Possedere il termometro per provare la febbre era un lusso: era consuetudine, quando in casa qualcuno non stava bene, andarlo a chiedere in prestito alle poche famiglie che l’avevano. Anche per le iniezioni erano pochissime le donne che avevano la capacità di farle. Venivano chiamate da tutti.
Molte famiglie poverissime riuscivano a tirare avanti con la lavorazione delle scarpe: c’era chi le riparava e chi le fabbricava. All’interno delle misere abitazioni che davano direttamente sulla via, si sentiva il caratteristico e forte odore del corame (cuoio). D’estate i vari scarpari erano soliti portare i propri banchetti da lavoro all’esterno delle loro abitazioni, lungo le strade.
Le persone che passavano per la Conca, provenienti dal centro città o dai paesi limitrofi, si stupivano alla vista della fila di banchetti allineati lungo i marciapiedi di via Chilesotti, S. Giovanni Bosco, S. Filippo Neri e Dell’Eva.
Lo scarparo Piero Marzaro, ricevette da un carabiniere, proveniente da un’altra città e che aveva sposato la sorella di Pietro Ferretto Smorga, un paio si scarpe da risuolare ma non aveva i soldi per acquistare il cuoio necessario alla riparazione e così si fece pagare in anticipo. Però, come gli succedeva spesso, spese la somma ricevuta all’osteria. Riparò allora le scarpe con vari strati di cartone che colorò di nero e le riconsegnò. Sfortuna volle che nel viaggio di ritorno a casa le scarpe del carabiniere si bagnarono con le prevedibili conseguenze.
Lo scarparo Ghitan Savio che abitava in Piazzetta, negli anni ’50, al ritorno dall’Altopiano di Asiago dopo aver riconsegnato le scarpe riparate, riempiva lo stesso zaino con funghi. A quel tempo raccogliere i funghi era una cosa inconsueta. Li lavava alla fontana pubblica che era davanti alla sua abitazione e spesso li offriva alla gente: nessuno li voleva. Non erano abituati a consumarli e temevano di rimanere avvelenati anche se in realtà erano ottimi porcini.
Erano invece abituati a mangiare i gatti. Li catturavano, li mettevano in un sacco, una botta in testa e poi li cucinavano. La pelle veniva venduta.
Via Chilesotti è costellata di varie corti all’interno delle quali abitavano innumerevoli famiglie. Alla fine degli anni ’20, in corte Maran c’era la signora Neni Togna Camata, moglie di Giuseppe Sola, che adibiva una stanza molto ampia della sua abitazione ad asilo infantile: il primo di tutta la zona. Le mamme che andavano a lavorare e che non avevano nessuno a cui affidare i loro bambini, portavano il caregòto (seggiolone) e li affidavano a lei che provvedeva ad accudirli, a dar loro da mangiare e a farli dormire in alcune culle.

La gente della Conca, all’interno del povero quartiere, si sentiva a casa sua: quando rientrava dal centro o da altre zone, si sentiva veramente a proprio agio.
Era consuetudine di molte persone, appena arrivavano in Piazzetta dal centro della città, cominciare a cantare fino all’arrivo a casa. Ripetevano sempre la stessa canzone. Ognuno aveva la propria: Toni Berto cantava “il primo amore non si scorda mai” mentre il fabbro Jasinto (Giacinto) Vanzan, alla domenica, quando aveva fatto festa e bevuto qualche bicchiere cantava sempre la stessa frase “in campagna non ci vado perché il sol mi fa mal”.
Era abitudine di molti uomini, alla sera al ritorno dall’osteria, cantare la serenata alla moglie forse anche per farsi perdonare un po’: era una breve strofa, sempre della stessa romanza di un’opera. Vittorio Talin cantava “come Vally me ne andrò lontano, come l’eco della mia campana”.
Angelo Vellere cantava invece “o giardinier non mi tradir, son Giovannina, son Giovannina”. Luigi Bonato (Magnavaca) cantava “sul ponte sventola la bandiera bianca”.
I bambini e i ragazzi erano sempre in giro a giocare: erano molto liberi, ma, quando una mamma richiamava il proprio figlio, anche tutte le altre lo facevano quasi contemporaneamente. Era la ritirata. La vita dei ragazzi era in strada. Il loro parco giochi era la strada.
Dagli anni ’50, quando sono arrivate in Conca, si dice che le suore abbiano raddrizzato le ragazze, don Pieretto Bonato e don Angelo Piccini i ragazzi.
Quasi tutti erano senza educazione, si comportavano male. Suore e sacerdoti hanno insegnato loro come comportarsi, quale atteggiamento tenere nelle varie occasioni. La loro non era cattiveria, ma mancanza di istruzione, i genitori avevano studiato fino alla terza o quarta elementare.
Durante i lavori di scavo (che all’inizio venivano eseguiti a mano) e della posa delle grosse tubature delle fognature lungo le strade, per i ragazzi fu un ottimo motivo di svago, abbastanza pericoloso, saltare da una parte all’altra, correre all’interno dell’ampio fossato e giocare a nascondino.
I ragazzi per quasi tutto l’anno indossavano le braghete curte (pantaloni corti) che spesso avevano le pesse (fondelli) e le tirache (bretelle) fatte dello stesso tessuto. D’estate, solitamente avevano una maglietta a giro collo che quasi sempre era a righe (le T-shirt sono arrivate qualche anno dopo) ed ai piedi i sandali da frate. Venivano vestiti così da marzo a novembre, anche se la temperatura era molto rigida perché in tal modo non rovinavano i pantaloni lunghi sulle ginocchia e per giustificarsi le mamme dicevano: “i xe ʃóvani, i continua a corare e i se scalda”. E prendevano il raffreddore ed allora avevano due bei pavèri (mocci) che pendevano dal naso e che non venivano puliti molto assiduamente. Il primo paletò (cappotto) veniva spesso acquistato a sedici o diciotto anni, quando erano quasi dei giovanotti.
Le persone anziane, d’inverno usavano il tabaro (una specie di mantello nero molto ampio) e quando incontravano qualcuno solevano esclamare “la beca-la beca” per dire fa freddo, fa freddo.
Per scaldarsi quando andavano a letto usavano spesso l’acqua calda che c’era nella vaschetta della stufa mettendola all’interno di un bossolo di granata (bomba) in ottone trasformato per l’uso.
Una delle medicine per far passare ai bambini il mal di gola era il sùcaro òrʃo (zucchero): le mamme scioglievano dello zucchero su una tecieta (tegame), lo abbrustolivano un po’ e lo raffreddavano velocemente sulla pria (pietra) del secchiaio: poi, a piccole scàjete (pezzi) veniva dato ai figli. Qualche volta allo zucchero venivano aggiunti i bagìgi o le noci o le noʃèle (nocciole).
Qualche famiglia, pur senza possedere campi, allevava un maiale: per loro era molto più impegnativo dei contadini perché avevano molte meno possibilità di dargli da mangiare.
Una signora si era così organizzata: in fondo all’orto, un po’ in disparte, aveva improvvisato uno stalòto (porcile) e poi quasi quotidianamente girava per la Conca, in bicicletta, con due grossi secchi appesi al manubrio che riempiva con le lavaure (brodaglie molto puzzolenti) che le varie famiglie mettevano da parte appositamente per lei.
Molti nuclei famigliari allevavano i conigli ed era consuetudine consegnare le pelli a Bepi Binotto di via Cul del Saco che lavorava alla conceria Munarini: lui, a casa sua, provvedeva a conciarle. Con esse poi venivano confezionati colli per cappotti, o cucendone alcune assieme, dei paletònsini (cappottini) per le bambine oppure dei tappeti da camera da letto.
Il contadino Maran di via S. Filippo Neri accompagnava le sue mucche a pascolare sul terreno davanti alle scuole Scalcerle, in centro città, dove nel 1962 è stato costruito l’ufficio postale. Si faceva aiutare dai ragazzini suoi vicini di casa perché dovevano transitare per via Chilesotti, Corradini, Rasa.
Annualmente per le vie della Conca transitavano le mucche in transumanza che venivano portate, nei mesi estivi, nelle malghe sull’Altopiano di Asiago.

1957 – In Cul del Saco: mucche in transumanza (Resy Talin – Francesco Crema)

Arcangelo Brusiela lo stagnìn che abitava in corte dei Crema di via Chilesotti, come molte altre famiglie, andava nella discarica che c’era lungo via Cul del Saco a raccogliere la poca carta che riusciva a trovare, la appallottolava, la bagnava e dopo averla asciugata la metteva da parte per bruciarla nel fogolare durante l’inverno.
Quasi tutte le famiglie di via Cul del Saco allevavano una o due capre per avere almeno un po’ di latte (qualcuno doveva tenerle in cucina). Ovviamente non possedevano dei terreni per farle brucare e quindi, tenendole con una corta corda, le accompagnavano fino in fondo alla strada vècia (via S. Giovanni Bosco), spesso litigando fra di loro per accaparrarsi l’erba della terra di nessuno. Usavano anche un lungo bastone con un gancio: tiravano verso il basso i rami de spin del Signore e de spin capeléto affinché le bestie potessero mangiarne le foglie, ma venivano sgridati dai proprietari dei terreni perché rovinavano le siepi e si aprivano dei varchi. Durante l’estate dovevano raccogliere ed essiccare più erba possibile per sfamare le capre durante i lunghi inverni, magari dai campi dove era stato tagliato il granoturco. Per portare le capre al béco (maschio) andavano nelle vicinanze di Caltrano: in zona nessuno voleva mantenerlo perché non produceva latte. Si ricorda la capra di Tiranelli di via S. Filippo Neri che faceva anche due litri e mezzo di latte al giorno: era una grande quantità.
In molte delle povere abitazioni della Conca venivano allevati i colombi: nelle cassette poste sotto al portico o nelle tèʃe le coppie di volatili deponevano le uova. Qualche settimana dopo i colombini erano pronti da mangiare od essere venduti.
Era consuetudine di molti operai e scarpari, appena terminato il fugace pranzo, ritrovarsi a chiacchierare e a discutere appena fuori dalla corte Crema. Si sedevano per terra, con la schiena appoggiata al muro, dove attualmente c’è il barbiere Guerrino Conzato.
Le persone del quartiere che avevano la fortuna di lavorare in fabbrica erano pochissime e la vita per loro era migliore rispetto alle altre.
Le famiglie Trussardo (Ciussardo) e Dal Zotto (Puina) di via Chilesotti, accompagnavano molto spesso le loro oche a pascolare lungo gli argini delle rogge che passano per la Conca perché c’erano molte ortiche delle quali gli animali erano ghiotti.
I Dal Zotto avevano anche alcune mucche. Come quasi tutte le famiglie, non avevano l’acqua in casa e perciò portavano le bestie a bere al làbio (abbeveratoio) che c’era all’imboccatura di via Cul del Saco. Arrivate alla casa d’angolo della famiglia Lovisetto, le mucche si fermavano per grattarsi la schiena sul muro: il proprietario si arrabbiava sempre, ma non poteva farci niente.
Un piatto molto usato era la panà: del pane vecchio veniva fatto bollire con il brodo fino alla sua omogeneità, poi veniva condito con olio, formaggio ed un uovo. Molti alimenti, come la pasta e il burro, venivano fatti in casa.
La vigilia di Pasqua, subito dopo la fine della guerra, non c’era lavoro, c’era poco da mangiare, e, come molta gente della Conca, due ragazze stavano raccogliendo, lungo via delle Robinie, un po’ di legna per accendere il fuoco. Si sono imbattute in una pai (tacchina) con i pulcini attorno: la più piccola che aveva nove anni, non ci pensò due volte, saltò addosso al pennuto e lo coprì con il sacco che le serviva per la legna. Lo portò a casa e, anche se la sorella maggiore era contraria, mise la testa della tacchina sotto al manico di una scopa e le tirò il collo. Il giorno dopo la cucinarono. Il mattino seguente, durante la messa prima, le ragazze udirono la proprietaria della tacchina che brontolava dell’accaduto e loro si fecero piccole piccole.
Il 2 giugno del 1946, alla prima votazione nazionale che si svolse dopo la 2^ Guerra Mondiale, tutta la gente desiderava aderire, anche perché le donne non avevano mai potuto farlo prima di allora. Una signora di via Chilesotti ebbe un bambino il giorno del voto, perciò, non essendo in grado di recarsi al seggio, mandò la sorella, che le assomigliava, a farlo al posto suo.
Nelo Pansa Zambon di via Chilesotti aveva un carretto trainato da una musséta (asinella) di nome Ciucia e qualche volta, dopo aver posizionato alcune sedie sul mezzo, andava con altre persone a fare un giro e a mangiare qualcosa, fino alle colline delle Bregonze. Negli anni ’30 aveva l’incarico di andare quotidianamente a Montecchio Precalcino a caricare il latte per l’Istituto Nordera.
La famiglia Crema di via Chilesotti aveva l’abitazione che comunicava con la corte dei Zanoti. La Maria Albertini (Turca) che abitava in quella corte, era una tiraòssi che rimetteva a posto polsi e caviglie slogati: era consuetudine che le persone che avevano bisogno delle sue cure, per non fare il giro del lungo caseggiato, passassero per la cucina dei Crema e si recassero dalla Maria e poi ritornassero per la stessa scorciatoia. Per loro era una cosa normale: le porte non erano mai chiuse a chiave, tutti si conoscevano.
C’erano alcuni poaréti (mendicanti) che passavano quasi settimanalmente per le varie case della Conca a chiedere l’elemosina e sempre lo stesso giorno della settimana per essere ben riconosciuti.
Nel dopoguerra, alla sera, all’interno dell’osteria di Matio Sguai (Martini) in corte Fiaschi di via Chilesotti, si riuniva un piccolo gruppo di “musicisti”. Con loro la gente cantava e ballava al ritmo della Balalaika. Usavano anche un vecchio grammofono con i dischi a 33 giri. D’estate invece si ritrovavano a ballare nella corte da bocce in fondo al cortile.
Il parroco, quando passava per la benedizione annuale delle case, saltava abitualmente l’osteria perché il ballo era considerato uno scandalo ed il sacerdote era contrario a causa della sua mentalità, condivisa da molti in quegli anni.
Il fratello di Matio Sguai, Guerrino, maestro elementare a Zugliano, usando i tavoli dell’osteria, era solito organizzare, nei pomeriggi estivi, il doposcuola per una sessantina di ragazzi della Città di Thiene.
L’osteria è stata chiusa nel 1950.
Attilio Grendene (Stecolin), Luciano Dall’Igna (Dayan) e Gianni Bravo (Cacao), di via Chilesotti, erano appassionati chitarristi. Quest’ultimo aveva l’abitudine, alla sera, dopo il lavoro, di affacciarsi al balcone di casa, intonare le note di una canzone e dilettare così i vicini e i passanti.
Era consuetudine degli adulti mandare i bambini da Jijo Monca Luigi Conzato (tabachìn di via Chilesotti) ad acquistare anche solo due sigarette: non avevano la possibilità per un pacchetto intero, infatti le sigarette venivano vendute anche sfuse.
Dopo una lunga e trepidante attesa, il mattino del 6 gennaio arrivava la Befana. Gesù Bambino non portava doni materiali. I ragazzi della Conca aspettavano con ansia quel giorno perché era l’unica occasione per ricevere qualche regalo: uno scartòsso con dentro do naranse (due aranci), quattro mandarini, un poche de gaetine (bagigi). I più fortunati potevano trovare un piccolo giocattolo e le bambine un banbòcioto (bambolotto), spesso lo stesso dell’anno precedente o della sorella più grande, a volte senza un braccio e che puntualmente, dopo qualche giorno, spariva un’altra volta (messo da parte per l’anno seguente). Un po’ di carbone non guastava mai per indicare al pargolo che doveva rigare dritto altrimenti la prossima volta avrebbe ricevuto solo quello (veniva acquistato nella Drogheria Zambon, sotto ai portici in piazza, che aveva un vastissimo assortimento di bòn-boni e di molte altre cose).
Quando cominciava il carnevale, le mamme con poche possibilità impastavano i grùstuli (crostoli) e le frìtole (frittelle). Per prendere in giro i bambini e ridere un po’, qualcuno li mandava da una’altra signora della corte a prendere lo stampo per fare le frittelle.
Durante l’estate i bambini che si riteneva avessero più bisogno di altri, venivano mandati in colonia: con la corriera, chi al mare alla Colonia Monte Berico di Jesolo o Cervia, chi in montagna nella Colonia Alpina Gil di Cesuna, a Lusiana o a Stoccaredo sull’Altopiano di Asiago, chi a Montanina di Velo D’Astico e, fino a qualche anno dopo la guerra, nell’accogliente Colonia Piero Panizzon a Tonezza del Cimone di proprietà del Comune di Thiene. Era un mese di vacanza, con l’alzabandiera al mattino, l’immancabile canto dell’inno nazionale e poi giochi o lunghe passeggiate sorvegliati dalle signorine.

Chi non andava in colonia, poteva partecipare al solario: qui i bambini venivano accuditi dalla mattina al pomeriggio, giocavano e facevano un po’ di doposcuola. Dopo il pranzo era obbligatorio il pisolino pomeridiano. Gli edifici usati erano l’ex Casa del Fascio di via G. Munari e le scuole elementari Scalcerle nell’omonima piazza.
Le scuole riprendevano sempre il 1° di ottobre. I ragazzi, con i loro traversòni (grembiuli) neri ed il fiocco blu, le ragazze con il fiocco rosso, si ritrovavano alle scuole Scalcerle, le uniche della città. Le frazioni di Rozzampia e Lampertico avevano le proprie. La cartella si teneva in mano. Le prime cartelle con le cinghie da portare sulle spalle arrivarono molti anni dopo, come pure gli elastici per tenere assieme i libri da portare sottobraccio. Le ragazze della Conca che frequentavano le medie si sentivano così più simili alle colleghe del centro città. Venivano usati solamente un quaderno a righe ed uno a quadri di misura diversa a seconda della classe frequentata (i più fortunati avevano quelli con la copertina colorata, ma normalmente le copertine erano nere). Nella cartella c’era anche un penale con qualche pennino di ricambio, perché spesso si schincavano, da intingere nel calamaio nel vecchio banco di legno scrostato che il bidello Bortolo Barbieri e la bidella Maria Rizzi riempivano di inchiostro usando un bricco con un lungo becco.

Fino agli anni ’60 nell’aula delle scuole elementari Scalcerle situata vicino al parcheggio esterno, dal lato dell’Istituto Nordera, venivano annualmente installate le apparecchiature che servivano a sottoporre gli alunni della scuola e di tutta la zona, alle radiografie polmonari per la prevenzione della tubercolosi in quegli anni ancora molto diffusa. In quei giorni gli alunni di quella classe venivano spostati in un’altra aula o suddivisi in altre classi.
Gli scolari dovevano togliersi le maglie e le “catenine” e rimasti in canottiera, in piedi, in fila indiana aspettavano il loro turno per appoggiare il petto al macchinario ed eseguire l’esame diagnostico. Un medico infilava una grossa lastra sul retro, poi andava a posizionarsi dietro a un paravento schermato e faceva scattare le radiografie.
La macchina era collegata, tramite dei grossi cavi, al camion parcheggiato all’esterno, in piazza Scalcerle.
Finite le scuole, i ragazzi erano completamente liberi: pochi compiti per le vacanze, quasi nessuno andava in ferie (qualcuno andava a passare qualche giorno dai parenti) e così tutti in giro a giocare da mattina a sera.
Era usanza, fino agli anni ’50, alla domenica, assistere a Messa Prima alle ore 5 in Duomo. Sia d’estate che d’inverno. Il giorno di Natale, dopo la cerimonia, qualche famiglia passava da Buzzolan sotto ai portici in centro per acquistare dei biscotti secchi e poi a casa venivano inzuppati nella cioccolata calda: era l’unica occasione dell’anno.
In quasi tutte le famiglie, tutte le sere, subito dopo la frugale cena, veniva recitato il rosario: la mamma intonava le preghiere e tutti i congiunti la seguivano.
Fino agli anni ’60 si usava portare il lutto per almeno sei mesi dopo la morte di un congiunto.
Gli uomini mettevano un grosso bottone nero nell’occhiello del revers della giacca (fino a quegli anni quasi tutti le indossavano) oppure una striscia di stoffa nera di traverso dello stesso revers.
Le donne portavano le calze di nylon nere, usavano un abbigliamento il meno vistoso possibile e, quando si recavano in chiesa, al posto del consueto velo chiaro mettevano quello nero.
Con il passare degli anni tale usanza, dalle nostre parti, è scomparsa.
Si dice che le persone che abitavano in sima Thiene, quando c’era qualche reclamo da fare in Municipio, attendessero che venisse inoltrato per primo da “quei dea Conca”. Un esempio era quello della cronica mancanza dell’acqua corrente: “E adesso se move la Conca”. La popolazione della nostra zona per la maggior parte era comunista e faceva valere le sue ragioni.

I cognomi più diffusi nel Comune di Thiene sono, in ordine decrescente:
Carollo, Dal Zotto, Balasso, Dal Maso, Rossi, Dal Santo, Cattelan, Fabris, Binotto, Saccardo.
Attualmente il cognome più diffuso in Conca è senza dubbio Dal Zotto. Fino al 1800 la famiglia non è citata fra quelle residenti a Thiene. Per distinguere le varie famiglie e colonne sono stati dati vari soprannomi. Ne riportiamo i più noti: Bandina, Bochese, Boscara, Dada, Fiaschi, Marangon, Maroca, Ochi, Peo, Puina, Sassale, Tane, Taio, Taloco.

Nel corso degli anni molte famiglie della Conca si sono trasferite in altri quartieri della Città. Negli anni ’60 in Ca’ Pajella (Borgo Asiago) denominato anche Babilonia e negli anni a seguire alle Vianelle nel quartiere dei Cappuccini.
Il nostro quartiere nel tempo è cambiato, è diventato multietnico, la Parrocchia ne ha seguito tutti i mutamenti ma resta ancora oggi un punto di riferimento per molti: bambini, anziani e famiglie.
Nel 1980 è stato battezzato in Conca il primo bambino di colore, da don Andrea Stevanin.

Storia del Rione della Conca di Thiene